domenica 27 aprile 2008

Cronaca n. #2 del set di avventure Mosaico

Ecco a voi le cronache tratte dalla precedente campagna D&D su Nophar (mia ambientazione), ad oggi trasposta completamente su Eberron.
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Non si fermarono per tutta la notte ed il giorno seguente.
Distavano diverse miglia da Rothsest, ed il sole cominciava a rosseggiare inclinandosi verso ovest.
«Avranno sicuramente inviato una squadra,» commentò Wurtar, «e abbiamo almeno un altro giorno e mezzo prima di raggiungere quella stramaledetta cittadina.»
«I cavalli sono allo stremo delle forze» fece notare il mezzelfo mentre accarezzava il collo di uno dei due animali ansanti, «Non riusciranno a resistere per più di un miglio, a questo ritmo».
«È quasi notte, e conviene trovare un rifugio» convenne il guerriero.
Si fermarono e decisero che la cosa più sicura da fare era inoltrarsi nella foresta, proseguendo verso sud, in direzione di Rothsest.
«Io nasconderò le tracce fino alla curva che abbiamo superato poco fa» suggerì Sigon, «mi inoltrerò, poi, nella foresta verso nord, con i cavalli, così da creare una falsa pista. Dopodiché li lascerò liberi e tornerò sui miei passi per raggiungervi..».
«Inoltrati nel bosco per un ora, non di più. Non voglio dover dire a Conan di venirti a cercare.» precisò ironicamente il mago, che non poté evitare l’ovvia occhiata truce del ranger, che tutto poteva fare nei boschi, tranne che perdersi.
«Lascia che ti aiuti » disse amichevolmente il chierico di Dol Dorn, intervenuto più per smorzare i toni. Nascoste le tracce, il chierico lo salutò con una augurio di buona riuscita e raggiunse gli altri nel fitto bosco.
Sigon si ritrovò solo.
La cosa non lo disturbava minimamente. Era avvezzo alla solitudine. D’altronde era un profugo, e nel sud del Breland i profughi servono solo a ricordare le vergogne della guerra che li ha generati. E questo Sigon lo sapeva fin troppo bene. Molti erano i ricordi che spesso gli recavano visita in sogno, facendolo svegliare d’improvviso in un giaciglio di agonia.
Ora però non era il momento per le reminescenze.
Diede uno strattone alle briglie e si inoltrò nella foresta. Il terreno non si presentava troppo impervio, e i pini che lo circondavano, con la loro silenziosa maestosità, gli infondevano una certa sicurezza.
Erano trascorsi pochi minuti, quando notò un movimento furtivo, fra gli alberi. Solo allora si accorse che stava procedendo sottovento, e che l’odore dei cavalli ed il suo, li precedevano. Qualche predatore poteva averli fiutati. Proseguì con cautela e con i sensi in massima all’erta, fino a quando giunse ad una piccola radura. La piccola falce crescente di Lharvion, detta l’occhio, spiava attraverso le cime delle conifere.
C’era un silenzio teso.
Il montanaro, innervosito da quella insolita quiete, decise che quella zona era sufficientemente lontana dalla strada; diede quindi una botta alle due bestie, che però si mossero solo di qualche passo, per poi tornare indietro.
Erano spaventate. Come se percepissero ciò che Sigon non poteva vedere. Continuavano a fissare il centro della radura, movendo continuamente le orecchie alla ricerca di qualche rumore.
Dietro di loro un fruscio.
Si voltò e scorse, grazie ai particolari occhi eredità del padre, un quadrupede che si muoveva furtivo. Subito, alla sua sinistra, un agitarsi di un cespuglio gli rivelò la presenza di un altro essere. I cavalli sbuffavano agitati, al limite del panico.
Poderoso e improvviso, un ululato ruppe la tensione.
Le due bestie da tiro, con la paura nelle vene, diedero uno strattone alle redini e corsero via, lasciando il ranger solo al limitare dello spiazzo. Lo attraversarono completamente e si precipitarono nell’opposta selva di alberi, sparendo alla vista di Sigon, impietrito più per la repentinità degli avvenimenti, che per paura.
Passarono alcuni istanti di interminabile silenzio. Anche il leggero vento da sud, aveva smesso di soffiare.
Sigon non sapeva che fare. Aveva capito di trovarsi in mezzo ad un branco di predatori, e che ogni via di fuga era impedita.
Era nel suo ambiente naturale: la foresta. Ma questa non era Bosco Torreggiante nell'Eldeen, terra in cui era cresciuto. Si trovava in un luogo selvaggio ed ostile; in una terra straniera abitata da creature a lui sconosciute.
Poi, mentre con l’occhio cercava un varco che gli desse la possibilità di sperare ancora, notò qualcosa.
Sul limitare opposto alla radura, un’ombra, più scura della notte stessa, si muoveva.
Con andamento regolare, quasi fiero, l’essere si mosse. Camminava a quattro zampe, e raggiunto il centro della radura, si fermò. Come in attesa.
Con l’ultimo briciolo di coraggio, Sigon si avvicinò al limitare della radura, per poter osservare meglio la creatura.
Era un lupo. Il più grande che Sigon avesse mai visto. Era distante, ma era certo che al garrese sarebbe arrivato almeno al suo gomito. E lo stava fissando. Gli occhi della fiera, erano chiari. Azzurri o bianchi, non avrebbe saputo dirlo, data la distanza, ma di sicuro lo stavano osservando.
Trascorsero istanti lunghissimi, in cui gli sguardi dell’incredibile animale e del mezzelfo, non smisero un istante di incrociarsi; poi un rumore alle spalle di Sigon lo fece trasalire. Si era completamente scordato della situazione in cui versava. I battitori gli stavano ancora dando la caccia.
D’improvviso il grande lupo nero, sollevò il muso alle lune di Eberron, ed emise un lungo ululato.
Il mezzelfo si accorse che intorno a se, le creature che prima lo avevano accerchiato, ora si muovevano verso la radura. Verso il grande lupo nero.
La via alle sue spalle, era sgombra. Non attese un solo istante. Con il cuore pieno di emozioni per l’insperata via di fuga e per la strana sensazione di affinità provata, si immerse nel bosco, a ritroso verso la strada, ultimo luogo in cui aveva visto i suoi compagni.
Fuggendo però, gettò un’occhiata dietro la schiena: al centro del prato verde, lo sguardo del lupo nero era ancora fisso su di lui.
Percorse il tragitto senza dubbio alcuno. Nonostante fosse la prima volta che si addentrava in quella foresta, sapeva perfettamente come orientarsi. Era oramai a ridosso della strada, vicino ad una grande roccia che spuntava direttamente dal suolo, quando notò delle luci. Le fonti erano probabilmente le torce della squadra che li stava cercando.
Decise di appostarsi sopra il macigno e controllare.
Un uomo e cinque goblin. L’uomo, che sembrava un Lhazaariano, indossava una cotta di maglia, di buona fattura, e teneva in mano una spada dalla lunga lama. Riflessi dalle fiamme, gli occhi maligni e le corazze di cuoio degli altri, erano come fari per l’occhio vigile di Sigon.
«Cercate maledetti!» urlava l'uomo, «Non possono essere spariti. Il nostro signore, Dobelair, non risparmia chi fallisce!».
Sigon era in trappola. Non poteva attraversare la strada per raggiungere gli altri e non poteva proseguire nel bosco, per via dei lupi.
Poi all’improvviso un grido: «Gnaak trovato! Segue Gnaak!».
Il piano, purtroppo, aveva funzionato: erano sulle sue tracce.

Sigon, sdraiato sulla grande roccia, comprese che si trovava tra due fuochi: i battitori di Dobelair e i lupi della radura. Non trovava via di scampo.
Poi dal profondo della radura si innalzò un potente ululato.
Un ululato che gli trafisse lo spirito.
Decise allora di seguire l’istinto. Si sollevò in piedi sulla roccia che lo nascondeva alla vista e urlò: «Ehi voi stupide creature!» incalzò, «ce ne avete messo di tempo!».
Il gruppo di battitori, dopo un istante di sorpresa, iniziarono l’inseguimento urlando e minacciando nella loro incomprensibile lingua.
Il ranger si diresse alla radura. Non sapeva perché aveva deciso di agire in quel modo. Sapeva solo che doveva correre verso la radura. Sentiva che lì qualcosa lo avrebbe protetto.
«Maledette bestie immonde, prendetelo!» urlò il capo dei battitori, «Fate di quel bastardo ciò che volete, ma lasciate intatta la testa, è il dono per il nostro signore, quale tributo per averlo sfidato!»
Sigon aveva quasi attraversato totalmente la radura, quando gli inseguitori arrivarono al limitare del bosco. Erano accecati dalla bramosia della caccia, e iniziarono la traversata di corsa sotto la candida luce di Lharvion.
Sigon, con il fiato corto, si gettò sotto un cespuglio di felci, sdraiandosi al cospetto di un antico pino e osservò.
Percepiva che qualcosa stava accadendo.
Sentì un rumore di piccoli passi poco distante, poi uno più vicino, infine voltandosi, lo vide.
Era sopra di lui. Magnifico. Fiero. Terribile. E con occhi glaciali lo trafiggeva, fino a toccargli l’anima.
Sigon comprese: c'era un legame.
Poi il grande lupo, si voltò di scatto e fece un passo nella radura.
I goblin e l’umano erano al centro del prato oramai, e quando videro l’essere sbucare dall’antro boscoso si bloccarono di scatto. Davanti a loro, alle loro spalle, da ogni lato della foresta, fecero la loro entrata nella radura i lupi.
Mai Sigon vide un branco tanto grande. Non poteva essere un unico branco. Forse quattro o cinque o molti di più. Sei, forse sette dozzine di esemplari, ma sembrarono molti di più, il ranger non poté contarli con precisione. L’emozione era troppo forte.
Gli inseguitori al centro della radura agitavano il fuoco delle torce e le loro rozze armi per esorcizzare il loro terrore. Il grande branco, strinse il cerchio attorno al gruppo dei sette. Quando furono a dieci passi da loro il grande lupo si fermò e con lui, tutti gli altri.
Sigon non seppe quanti istanti trascorsero, ma in un preciso istante il grande lupo fece un balzo incredibile e azzannò la gola del Lhazaariano, uccidendolo all’istante. I goblin non ebbero tempo di capire cosa fosse successo al loro capitano. Decine di lupi si avventarono su di loro facendoli a pezzi.
Il grande lupo si allontanò poi dai predatori, e sedutosi poco distante rivolse un breve sguardo in direzione di Sigon, poi alzò il muso alle lune ed emise un indescrivibile ululato. Quel suono entrò per sempre nel cuore di Sigon.
Destatosi dallo stato di stupore e meraviglia, si alzò e corse verso i compagni. Echeggiava ancora in lui l'uluato e sentiva nel suo spirito il fiero sguardo dell'animale.

Arrivò al campo trafelato.

«Ma cosa ti è successo?» chiese Conan preoccupato «Wurtar ti ha detto un ora, e ne hai impiegate quasi tre per tornare. Ehi… ma sei pallido… stai male?»
«Sembra che tu abbia visto uno spettro…» aggiunse Zerbe, mormorando una qualche litania a Dol Dorn.
Wurtar si limitava a fissarlo.
«Nulla. Non preoccupatevi,» rispose «I battitori avevano trovato la pista più in fretta di quanto credessi. Ma ora sono sicuro che non ci troveranno. E comunque ora ho fame. Ho preso questi mentre tornavo. È per quello che ho impiegato più tempo». E stacco dalla cintura tre conigli.
Non capì con esattezza, perché volle nascondere l’accaduto ai compagni. Sapeva solo che quella creatura e il loro legame, era un’esperienza che riguardava lui soltanto.
Quella notte, prima di addormentarsi, rifletté ancora sugli avvenimenti, e più di ogni altra cosa, cercò di capire perché cercò rifugio tra i lupi. Ma si addormentò.

Solo molto tempo dopo, avrebbe potuto comprendere il destino di quell’incontro.

Mol, Nono giorno di Aryth
Cronache di Eberron – 998 AR

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