domenica 27 aprile 2008

Cronaca n. #1 del set di avventure Mosaico

Ecco a voi le cronache tratte dalla precedente campagna D&D su Nophar (mia ambientazione), ad oggi trasposta completamente su Eberron.
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«Mai!» sibilò il giovane mago «Non cederò mai! Ci deve essere un modo per uscire…». Strinse il suo piccolo e inerme pugno. Questo movimento dettato dalla rabbia e dall’evidente impotenza, contrastava nettamente con il comportamento del resto del gruppo, che condivideva la sua sorte sul carro prigione.
Accanto a lui giaceva il corpo taurino del barbaro. L’apparente tranquillità del guerriero contrastavano nettamente con l’atmosfera inquieta degli altri compagni. Conan, comunque, si era dimostrato tutt’altro che remissivo al momento della cattura. Ben sette delgi infidi Goblin Dakhaan, erano caduti sotto la sua spada, prima che riuscissero ad immobilizzarlo. Durante il viaggio tentò di fuggire ben due volte, facendosi ricatturare in entrambe le occasioni.
Anche se il loro carceriere, aveva dimostrato di essere spietato nel punire chi commette errori, non potè giudicare le guardie che avevano permesso a Conan di scappare.
Non aveva ancora imparato a punire i morti.
Ora era lì, disteso con la schiena a terra, legato con tre giri di catene sia ai polsi che alle caviglie, con un mezzo sorriso di sofferta remissione stampato sulla sua truce faccia.
Il vento portava ai loro orecchi il canto libero degli uccelli.

«Non dobbiamo perderci d’animo, amici.» disse Zerbe «Dol Dorn veglia su di noi!».
«Taci prete! Per me era sufficiente che qualcun altro vegliasse su di noi l’altra notte, invece di dormire!» controbatté Wurtar fissando con il suo freddo occhio cinico il barbaro incatenato sul fondo del carro.
«Cosa devo fare per convincerti che mi dispiace!» tentò di replicare Conan sollevando la testa e mettendo in tensione i poderosi muscoli del collo. «Non è colpa mia se il cinghiale appena cotto sulla brace mi concilia il sonno!».
«Che Khyber ti sprofondi!» irruppe Sigon «vorresti dar incolpare il cinghiale, che io ho cacciato e che ha permesso a tutti noi di sfamarci dopo tre giorni di stenti nella foresta, del fatto che ci troviamo deportati come schiavi?!». Il ranger possedeva un indole molto docile, ma era evidente che la privazione della libertà lo avevano reso irascibile.
D’improvviso il carro si arrestò.
Udirono il corno spezzare il brusio di lamenti degli schiavi.
«Ci accamperemo in quello spiazzo laggiù, stanotte!» udirono dalla poderosa voce di Dobelair, «Voi cani rabbiosi: accendete un fuoco! Voi maledetti: preparate il campo!».
Dobelair dalla Veste Rossa era un capo duro e spietato, lo si vedeva anche dal suo portamento. Era un mercante di schiavi di poche parole, e quelle poche che pronunciava le usava solo per impartire ordini o per minacciare. D’altronde doti come quelle, erano lo scettro che gli consentiva di comandare la marmaglia che costituiva la carovana degli schiavisti. Un ammasso incoerente e violento di circa sessanta Goblin Dakhaan, e una ventina di briganti e delinquenti reclutati dalle più malfamate città del Karrnath.
Dall’alto della sua cavalcatura, avvolto nel mantello rosso porpora, controllava con freddezza il dispiegarsi delle truppe. Era davvero imponente, con i lunghi capelli corvini ondeggianti nel debole vento di Sypheros. Alto quasi quanto Conan, anche se non così imponente, di probabile discendenza Lhazaariana, gli uomini dalla pelle olivastra dell'est del Khorvaire, convinti che le leggi dell'impero non siano applicabili al loro popolo. La sua persona emana un aura sinistra e fissandolo si può percepire la sua fredda intelligenza.
I carri prigione cominciarono a disporsi a ventaglio. Il primo si diresse a ovest, mentre il secondo a est. Quello del gruppo, che chiudeva la carovana, rimase rivolto verso sud.
«Tra poche miglia arriveremo a Skairn e lì finalmente ci sbarazzeremo di voi!» urlò una guardia in cima al suo cavallo; anch’essa, aveva i tratti somatici simili a quelli del suo signore Dobelair, «Ci frutterete un bel gruzzoletto! Specialmente tu, sporco barbaro, sarai utilissimo come rematore nelle nostre navi!» disse rivolto a Conan con un ghigno.
La mole del guerriero vibrò violentemente. Quell’affermazione fu peggio di un marchio a fuoco.
Il cavaliere si allontanò, ordinando al Dakhaan di guardia al carro, di scegliere quattro persone per la raccolta della legna per il grande fuoco, che altri della sua razza stavano allestendo al centro del campo. Con uno grugnito infastidito, il goblin si diresse verso il carro.
Con rumore metallico, la porta del carro si aprì, ed entrò nella squallida e puzzolente prigione. Gli schiavi erano quasi tutti in pessime condizioni. C’erano uomini e donne ammassati da settimane, in condizioni disumane, nutriti ad avanzi ed acqua piovana. Molti erano morti durante la deportazione. La maggior di questi disgraziati erano vittime di imboscate, saccheggi o deportati da tutto il Khorvaire e forse anche oltre.
Il goblin si mise ad esaminare uno ad uno, con i piccoli occhi maligni i prigionieri. Percorse tutta la lunghezza del carro insultando nella sua lingua e calciando con cattiveria i malcapitati che gli capitavano a tiro. Raggiunse la fine del carro e si soffermò a fissare il gruppo che lì era stato disposto. Erano stati catturati due notti prima e risultavano quelli più sani. Si avvicinò con la sua brutta faccia per esaminarli più da vicino. Zerbe, Sigon, Wurtar e Conan. Lo sguardo tornò poi sul mago.
«Melma… Sgragh uccide te! Oggi… domani… no importa. Sgragh uccide mago!» sibilò in lingua comune storpiata, ma minacciosamente sincera.
Ignorando lo sguardo furente del giovane Wurtar, sganciò le catene che tenevano imprigionati i polsi e le caviglie di Zerbe e Sigon dal pavimento. Liberò poi anche Wurtar, che non smise mai di fissarlo con odio. Si diresse poi verso Conan, che già si dimenava per la frenesia della provvisoria libertà che avrebbe presto acquisito.
«Tu corre via, attacca me o non fa ordini, io uccide te!» minacciò. Il corpo del barbaro rimase teso qualche istante e poi si rilassò in segno di accettazione della condizione imposta. Cautamente Sgragh lo liberò, per poi allontanarsi con uno scatto, memore della fine fatta dai suoi compagni qualche giorno prima.
«Muovere!» grugnì, dopo che Conan fu in piedi «Seguire Sgragh!».
Con la coda dell’occhio, Zerbe notò che da ogni carro scendevano un goblin e quattro prigionieri, che come loro avevano incatenati l’un l’altro polsi e caviglie, affinché il movimento fosse loro consentito, ma non la fuga.
Dopo un breve consulto con gli altri suoi simili, Sgragh si diresse verso di loro ordinando di muoversi verso la foresta a sud.
«No parla, raccoglie legno, torna fuoco» spiegò al gruppo in quel suo accento, così cacofonico.
Il crepuscolo inondava di cremisi il contorno della foresta innanzi a loro, lo spettacolo era davvero magnifico ai loro occhi prigionieri. Avevano quasi raggiunto il limitare del boschetto, dove avrebbero dovuto cominciare a cercare, seguiti dal goblin e la sua spada, quando Wurtar si voltò verso Sigon e disse di stare all’erta. Lo stesso fece con Conan e Zerbe.
Wurtar si fermò, si voltò e guardò in faccia il goblin.
«Melma! Cosa fa? Chi detto ferma?» urlò.
«Essere immondo figlio di una scrofa e di molti maiali.» cominciò ad insultare « Sono certo che tua madre ti ha partorito inavvertitamente in cima ad una cloaca mentre stava defecando.»
Sgragh capiva solamente una o due delle parole che Wurtar pronunciava, ma erano state sufficienti per fargli capire che il mago lo stava offendendo.
«Sgragh uccide Melma!» e l’orchetto colpì violentemente col il piatto della spada, la spalla di Wurtar, che cadde immediatamente a terra. Sgragh gli fu subito sopra, dimenticandosi completamente del resto del gruppo.
Questo fu il suo errore.
Con un muggito, Conan avvinghiò il collo di Sgragh con le catene dei polsi e serrò. L’incauto Sgragh morì in pochi istanti, ma il barbaro non smise di stritolare il collo della creatura, fino a quando Zerbe non gli fece notare che la testa si era quasi staccata. Wurtar era stato ferito dal colpo della guardia, ma fortunatamente in modo superficiale.
Presero le chiavi attaccate alla cinghia del morto e si liberarono dalle pesanti catene.
Wurtar si soffermò qualche istante a fissare l’essere inerme e quasi decapitato, mormorando qualcosa che gli altri non riuscirono a capire. Forse qualche maledizione nella lingua della sua gente, rivolta all’anima di Sgragh, rappresentante di quella razza tanto odiata.
«Facciamo sparire il cadavere nella foresta.» sentenziò infine. «Tenerlo qui, potrebbe essere rischioso».
Mentre Conan trascinava la prova del loro omicidio, all’interno della foresta, canticchiando una strana canzoncina circa “otto piccoli goblin”, gli altri discutevano sul da farsi.
Era evidente che non potevano tornare verso Rothsest, il villaggio da cui erano partiti. Specie in quelle condizioni: a piedi, senza armi e con decine di goblin alle calcagna. Wurtar elaborò una manovra evasiva: sciogliere le briglie ai cavalli, liberare gli schiavi, approfittare della confusione per recuperare la cassa che conteneva i loro oggetti ed infine fuggire. Nessuna obiezione, quindi si diressero furtivamente verso il campo, notando che tutti erano intenti a issare tende e a preparare il perimetro per il fuoco.
Nessuno era nei paraggi.
Sigon si piazzò dietro il carro con in mano come armi le catene che lo avevano tenuto prigioniero fino a qualche minuto prima. Zerbe e Conan si acquattarono lungo i lati e Wurtar dolorante strisciò sul fondo per arrivare ai cavalli. Giunto dietro alle tre bestie, il mago cominciò subito a slegare le briglie e le rozze imbracature, cercando di fare meno rumore possibile. Conan però, mentre si avvicinava alla cassa, fu notato da uno schiavo all’interno, che non seppe trattenere un grido di meraviglia. Un gruppo di tre guardie, distanti un centinaio di metri, udirono il suono e si mossero verso di loro, anche se fortunatamente non li avevano ancora notati. Il crepuscolo influenzava la loro vista: la luce era debole, ma non così debole da permettere al loro occhio di rivelare il calore dei corpi.
Velocemente Conan e Zerbe si avventarono sulla cassa e la sollevarono. Era pesantissima, in quanto conteneva gli averi di tutti gli schiavi del carro. Scendendo Conan scivolò e rovinò a terra rompendo la cassa e sparpagliando il contenuto. I goblin accelerano il passo, ma incredibilmente non avevano ancora individuato il gruppo. Sigon nel frattempo aveva lanciato le chiavi di Sgragh all’interno del carro, mostrando, agli stupiti schiavi, i polsi liberi. Wurtar aveva liberato anche i cavalli, ma non riuscì a salire in quanto intravide una guardia a pochi metri innanzi al carro. Fece l’unica cosa che gli venne in mente.
Schiaffeggiò le cosce delle bestie, che si diedero alla fuga, nitrendo: una puntò dritto il campo a nord travolgendo la guardia e tutte le tende che incontrava. Le altre puntarono a est e ovest.
«Per Olladra! Non abbiamo più tempo! Ci sono addosso!» urlò Zerbe a Conan «Tira su questo sacco! C’è dentro la nostra roba! »
«Ma non ci sono le armature…» obiettò il barbaro.
«Un bue aundariano circondato dai lupi, avrebbe più raziocinio! A cosa ti serve l’armatura, stupido barbaro?» disse il prete porgendo il sacco al compagno «Secondo te hai tempo per indossarla? O forse vuoi farti aiutare da loro?» indicando i tre goblin che ormai li avevano individuati e stavano dando l'allarme.
«Ho liberato i cavalli! Dovremmo aver guadagnato qualche istante in più» disse Wurtar che li aveva raggiunti.
«Guardate là!» esclamò Zerbe, indicando due dei cavalli, prima sciolti, che tornavano trottando verso il carro.
Conan, senza esitare, prese il sacco su una spalla, si caricò un poco accondiscendente Wurtar sull’altra. Con poche falcate raggiunse uno dei cavalli e caricò l'amico e il sacco sulla schiena senza sella dell’animale. Zerbe montò, sull’altro e si diresse verso il retro del carro per andare a recuperare Sigon. Una volta raggiunto, il mezzelfo dovette abbandonare il tentativo di scassinatura della porta del carro, che avrebbe consentito agli schiavi di fuggire.
Si precipitarono lungo il sentiero che si addentrava nella foresta, lanciando le bestie da traino ad un galoppo al quale non erano abituate.
Sapevano in cuor loro che probabilmente li avrebbero raggiunti, ma ciò non aveva importanza adesso.

La foresta che li circondava e il cielo che li sovrastava erano testimoni silenziosi di quell’evento.

Anche se breve e sfuggente come un sogno al mattino, era vero: erano di nuovo liberi.

Sar, Settimo giorno di Aryth
Cronache di Eberron – 998 AR

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