domenica 27 aprile 2008

Cronaca n. #2 del set di avventure Mosaico

Ecco a voi le cronache tratte dalla precedente campagna D&D su Nophar (mia ambientazione), ad oggi trasposta completamente su Eberron.
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Non si fermarono per tutta la notte ed il giorno seguente.
Distavano diverse miglia da Rothsest, ed il sole cominciava a rosseggiare inclinandosi verso ovest.
«Avranno sicuramente inviato una squadra,» commentò Wurtar, «e abbiamo almeno un altro giorno e mezzo prima di raggiungere quella stramaledetta cittadina.»
«I cavalli sono allo stremo delle forze» fece notare il mezzelfo mentre accarezzava il collo di uno dei due animali ansanti, «Non riusciranno a resistere per più di un miglio, a questo ritmo».
«È quasi notte, e conviene trovare un rifugio» convenne il guerriero.
Si fermarono e decisero che la cosa più sicura da fare era inoltrarsi nella foresta, proseguendo verso sud, in direzione di Rothsest.
«Io nasconderò le tracce fino alla curva che abbiamo superato poco fa» suggerì Sigon, «mi inoltrerò, poi, nella foresta verso nord, con i cavalli, così da creare una falsa pista. Dopodiché li lascerò liberi e tornerò sui miei passi per raggiungervi..».
«Inoltrati nel bosco per un ora, non di più. Non voglio dover dire a Conan di venirti a cercare.» precisò ironicamente il mago, che non poté evitare l’ovvia occhiata truce del ranger, che tutto poteva fare nei boschi, tranne che perdersi.
«Lascia che ti aiuti » disse amichevolmente il chierico di Dol Dorn, intervenuto più per smorzare i toni. Nascoste le tracce, il chierico lo salutò con una augurio di buona riuscita e raggiunse gli altri nel fitto bosco.
Sigon si ritrovò solo.
La cosa non lo disturbava minimamente. Era avvezzo alla solitudine. D’altronde era un profugo, e nel sud del Breland i profughi servono solo a ricordare le vergogne della guerra che li ha generati. E questo Sigon lo sapeva fin troppo bene. Molti erano i ricordi che spesso gli recavano visita in sogno, facendolo svegliare d’improvviso in un giaciglio di agonia.
Ora però non era il momento per le reminescenze.
Diede uno strattone alle briglie e si inoltrò nella foresta. Il terreno non si presentava troppo impervio, e i pini che lo circondavano, con la loro silenziosa maestosità, gli infondevano una certa sicurezza.
Erano trascorsi pochi minuti, quando notò un movimento furtivo, fra gli alberi. Solo allora si accorse che stava procedendo sottovento, e che l’odore dei cavalli ed il suo, li precedevano. Qualche predatore poteva averli fiutati. Proseguì con cautela e con i sensi in massima all’erta, fino a quando giunse ad una piccola radura. La piccola falce crescente di Lharvion, detta l’occhio, spiava attraverso le cime delle conifere.
C’era un silenzio teso.
Il montanaro, innervosito da quella insolita quiete, decise che quella zona era sufficientemente lontana dalla strada; diede quindi una botta alle due bestie, che però si mossero solo di qualche passo, per poi tornare indietro.
Erano spaventate. Come se percepissero ciò che Sigon non poteva vedere. Continuavano a fissare il centro della radura, movendo continuamente le orecchie alla ricerca di qualche rumore.
Dietro di loro un fruscio.
Si voltò e scorse, grazie ai particolari occhi eredità del padre, un quadrupede che si muoveva furtivo. Subito, alla sua sinistra, un agitarsi di un cespuglio gli rivelò la presenza di un altro essere. I cavalli sbuffavano agitati, al limite del panico.
Poderoso e improvviso, un ululato ruppe la tensione.
Le due bestie da tiro, con la paura nelle vene, diedero uno strattone alle redini e corsero via, lasciando il ranger solo al limitare dello spiazzo. Lo attraversarono completamente e si precipitarono nell’opposta selva di alberi, sparendo alla vista di Sigon, impietrito più per la repentinità degli avvenimenti, che per paura.
Passarono alcuni istanti di interminabile silenzio. Anche il leggero vento da sud, aveva smesso di soffiare.
Sigon non sapeva che fare. Aveva capito di trovarsi in mezzo ad un branco di predatori, e che ogni via di fuga era impedita.
Era nel suo ambiente naturale: la foresta. Ma questa non era Bosco Torreggiante nell'Eldeen, terra in cui era cresciuto. Si trovava in un luogo selvaggio ed ostile; in una terra straniera abitata da creature a lui sconosciute.
Poi, mentre con l’occhio cercava un varco che gli desse la possibilità di sperare ancora, notò qualcosa.
Sul limitare opposto alla radura, un’ombra, più scura della notte stessa, si muoveva.
Con andamento regolare, quasi fiero, l’essere si mosse. Camminava a quattro zampe, e raggiunto il centro della radura, si fermò. Come in attesa.
Con l’ultimo briciolo di coraggio, Sigon si avvicinò al limitare della radura, per poter osservare meglio la creatura.
Era un lupo. Il più grande che Sigon avesse mai visto. Era distante, ma era certo che al garrese sarebbe arrivato almeno al suo gomito. E lo stava fissando. Gli occhi della fiera, erano chiari. Azzurri o bianchi, non avrebbe saputo dirlo, data la distanza, ma di sicuro lo stavano osservando.
Trascorsero istanti lunghissimi, in cui gli sguardi dell’incredibile animale e del mezzelfo, non smisero un istante di incrociarsi; poi un rumore alle spalle di Sigon lo fece trasalire. Si era completamente scordato della situazione in cui versava. I battitori gli stavano ancora dando la caccia.
D’improvviso il grande lupo nero, sollevò il muso alle lune di Eberron, ed emise un lungo ululato.
Il mezzelfo si accorse che intorno a se, le creature che prima lo avevano accerchiato, ora si muovevano verso la radura. Verso il grande lupo nero.
La via alle sue spalle, era sgombra. Non attese un solo istante. Con il cuore pieno di emozioni per l’insperata via di fuga e per la strana sensazione di affinità provata, si immerse nel bosco, a ritroso verso la strada, ultimo luogo in cui aveva visto i suoi compagni.
Fuggendo però, gettò un’occhiata dietro la schiena: al centro del prato verde, lo sguardo del lupo nero era ancora fisso su di lui.
Percorse il tragitto senza dubbio alcuno. Nonostante fosse la prima volta che si addentrava in quella foresta, sapeva perfettamente come orientarsi. Era oramai a ridosso della strada, vicino ad una grande roccia che spuntava direttamente dal suolo, quando notò delle luci. Le fonti erano probabilmente le torce della squadra che li stava cercando.
Decise di appostarsi sopra il macigno e controllare.
Un uomo e cinque goblin. L’uomo, che sembrava un Lhazaariano, indossava una cotta di maglia, di buona fattura, e teneva in mano una spada dalla lunga lama. Riflessi dalle fiamme, gli occhi maligni e le corazze di cuoio degli altri, erano come fari per l’occhio vigile di Sigon.
«Cercate maledetti!» urlava l'uomo, «Non possono essere spariti. Il nostro signore, Dobelair, non risparmia chi fallisce!».
Sigon era in trappola. Non poteva attraversare la strada per raggiungere gli altri e non poteva proseguire nel bosco, per via dei lupi.
Poi all’improvviso un grido: «Gnaak trovato! Segue Gnaak!».
Il piano, purtroppo, aveva funzionato: erano sulle sue tracce.

Sigon, sdraiato sulla grande roccia, comprese che si trovava tra due fuochi: i battitori di Dobelair e i lupi della radura. Non trovava via di scampo.
Poi dal profondo della radura si innalzò un potente ululato.
Un ululato che gli trafisse lo spirito.
Decise allora di seguire l’istinto. Si sollevò in piedi sulla roccia che lo nascondeva alla vista e urlò: «Ehi voi stupide creature!» incalzò, «ce ne avete messo di tempo!».
Il gruppo di battitori, dopo un istante di sorpresa, iniziarono l’inseguimento urlando e minacciando nella loro incomprensibile lingua.
Il ranger si diresse alla radura. Non sapeva perché aveva deciso di agire in quel modo. Sapeva solo che doveva correre verso la radura. Sentiva che lì qualcosa lo avrebbe protetto.
«Maledette bestie immonde, prendetelo!» urlò il capo dei battitori, «Fate di quel bastardo ciò che volete, ma lasciate intatta la testa, è il dono per il nostro signore, quale tributo per averlo sfidato!»
Sigon aveva quasi attraversato totalmente la radura, quando gli inseguitori arrivarono al limitare del bosco. Erano accecati dalla bramosia della caccia, e iniziarono la traversata di corsa sotto la candida luce di Lharvion.
Sigon, con il fiato corto, si gettò sotto un cespuglio di felci, sdraiandosi al cospetto di un antico pino e osservò.
Percepiva che qualcosa stava accadendo.
Sentì un rumore di piccoli passi poco distante, poi uno più vicino, infine voltandosi, lo vide.
Era sopra di lui. Magnifico. Fiero. Terribile. E con occhi glaciali lo trafiggeva, fino a toccargli l’anima.
Sigon comprese: c'era un legame.
Poi il grande lupo, si voltò di scatto e fece un passo nella radura.
I goblin e l’umano erano al centro del prato oramai, e quando videro l’essere sbucare dall’antro boscoso si bloccarono di scatto. Davanti a loro, alle loro spalle, da ogni lato della foresta, fecero la loro entrata nella radura i lupi.
Mai Sigon vide un branco tanto grande. Non poteva essere un unico branco. Forse quattro o cinque o molti di più. Sei, forse sette dozzine di esemplari, ma sembrarono molti di più, il ranger non poté contarli con precisione. L’emozione era troppo forte.
Gli inseguitori al centro della radura agitavano il fuoco delle torce e le loro rozze armi per esorcizzare il loro terrore. Il grande branco, strinse il cerchio attorno al gruppo dei sette. Quando furono a dieci passi da loro il grande lupo si fermò e con lui, tutti gli altri.
Sigon non seppe quanti istanti trascorsero, ma in un preciso istante il grande lupo fece un balzo incredibile e azzannò la gola del Lhazaariano, uccidendolo all’istante. I goblin non ebbero tempo di capire cosa fosse successo al loro capitano. Decine di lupi si avventarono su di loro facendoli a pezzi.
Il grande lupo si allontanò poi dai predatori, e sedutosi poco distante rivolse un breve sguardo in direzione di Sigon, poi alzò il muso alle lune ed emise un indescrivibile ululato. Quel suono entrò per sempre nel cuore di Sigon.
Destatosi dallo stato di stupore e meraviglia, si alzò e corse verso i compagni. Echeggiava ancora in lui l'uluato e sentiva nel suo spirito il fiero sguardo dell'animale.

Arrivò al campo trafelato.

«Ma cosa ti è successo?» chiese Conan preoccupato «Wurtar ti ha detto un ora, e ne hai impiegate quasi tre per tornare. Ehi… ma sei pallido… stai male?»
«Sembra che tu abbia visto uno spettro…» aggiunse Zerbe, mormorando una qualche litania a Dol Dorn.
Wurtar si limitava a fissarlo.
«Nulla. Non preoccupatevi,» rispose «I battitori avevano trovato la pista più in fretta di quanto credessi. Ma ora sono sicuro che non ci troveranno. E comunque ora ho fame. Ho preso questi mentre tornavo. È per quello che ho impiegato più tempo». E stacco dalla cintura tre conigli.
Non capì con esattezza, perché volle nascondere l’accaduto ai compagni. Sapeva solo che quella creatura e il loro legame, era un’esperienza che riguardava lui soltanto.
Quella notte, prima di addormentarsi, rifletté ancora sugli avvenimenti, e più di ogni altra cosa, cercò di capire perché cercò rifugio tra i lupi. Ma si addormentò.

Solo molto tempo dopo, avrebbe potuto comprendere il destino di quell’incontro.

Mol, Nono giorno di Aryth
Cronache di Eberron – 998 AR

Cronaca n. #1 del set di avventure Mosaico

Ecco a voi le cronache tratte dalla precedente campagna D&D su Nophar (mia ambientazione), ad oggi trasposta completamente su Eberron.
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«Mai!» sibilò il giovane mago «Non cederò mai! Ci deve essere un modo per uscire…». Strinse il suo piccolo e inerme pugno. Questo movimento dettato dalla rabbia e dall’evidente impotenza, contrastava nettamente con il comportamento del resto del gruppo, che condivideva la sua sorte sul carro prigione.
Accanto a lui giaceva il corpo taurino del barbaro. L’apparente tranquillità del guerriero contrastavano nettamente con l’atmosfera inquieta degli altri compagni. Conan, comunque, si era dimostrato tutt’altro che remissivo al momento della cattura. Ben sette delgi infidi Goblin Dakhaan, erano caduti sotto la sua spada, prima che riuscissero ad immobilizzarlo. Durante il viaggio tentò di fuggire ben due volte, facendosi ricatturare in entrambe le occasioni.
Anche se il loro carceriere, aveva dimostrato di essere spietato nel punire chi commette errori, non potè giudicare le guardie che avevano permesso a Conan di scappare.
Non aveva ancora imparato a punire i morti.
Ora era lì, disteso con la schiena a terra, legato con tre giri di catene sia ai polsi che alle caviglie, con un mezzo sorriso di sofferta remissione stampato sulla sua truce faccia.
Il vento portava ai loro orecchi il canto libero degli uccelli.

«Non dobbiamo perderci d’animo, amici.» disse Zerbe «Dol Dorn veglia su di noi!».
«Taci prete! Per me era sufficiente che qualcun altro vegliasse su di noi l’altra notte, invece di dormire!» controbatté Wurtar fissando con il suo freddo occhio cinico il barbaro incatenato sul fondo del carro.
«Cosa devo fare per convincerti che mi dispiace!» tentò di replicare Conan sollevando la testa e mettendo in tensione i poderosi muscoli del collo. «Non è colpa mia se il cinghiale appena cotto sulla brace mi concilia il sonno!».
«Che Khyber ti sprofondi!» irruppe Sigon «vorresti dar incolpare il cinghiale, che io ho cacciato e che ha permesso a tutti noi di sfamarci dopo tre giorni di stenti nella foresta, del fatto che ci troviamo deportati come schiavi?!». Il ranger possedeva un indole molto docile, ma era evidente che la privazione della libertà lo avevano reso irascibile.
D’improvviso il carro si arrestò.
Udirono il corno spezzare il brusio di lamenti degli schiavi.
«Ci accamperemo in quello spiazzo laggiù, stanotte!» udirono dalla poderosa voce di Dobelair, «Voi cani rabbiosi: accendete un fuoco! Voi maledetti: preparate il campo!».
Dobelair dalla Veste Rossa era un capo duro e spietato, lo si vedeva anche dal suo portamento. Era un mercante di schiavi di poche parole, e quelle poche che pronunciava le usava solo per impartire ordini o per minacciare. D’altronde doti come quelle, erano lo scettro che gli consentiva di comandare la marmaglia che costituiva la carovana degli schiavisti. Un ammasso incoerente e violento di circa sessanta Goblin Dakhaan, e una ventina di briganti e delinquenti reclutati dalle più malfamate città del Karrnath.
Dall’alto della sua cavalcatura, avvolto nel mantello rosso porpora, controllava con freddezza il dispiegarsi delle truppe. Era davvero imponente, con i lunghi capelli corvini ondeggianti nel debole vento di Sypheros. Alto quasi quanto Conan, anche se non così imponente, di probabile discendenza Lhazaariana, gli uomini dalla pelle olivastra dell'est del Khorvaire, convinti che le leggi dell'impero non siano applicabili al loro popolo. La sua persona emana un aura sinistra e fissandolo si può percepire la sua fredda intelligenza.
I carri prigione cominciarono a disporsi a ventaglio. Il primo si diresse a ovest, mentre il secondo a est. Quello del gruppo, che chiudeva la carovana, rimase rivolto verso sud.
«Tra poche miglia arriveremo a Skairn e lì finalmente ci sbarazzeremo di voi!» urlò una guardia in cima al suo cavallo; anch’essa, aveva i tratti somatici simili a quelli del suo signore Dobelair, «Ci frutterete un bel gruzzoletto! Specialmente tu, sporco barbaro, sarai utilissimo come rematore nelle nostre navi!» disse rivolto a Conan con un ghigno.
La mole del guerriero vibrò violentemente. Quell’affermazione fu peggio di un marchio a fuoco.
Il cavaliere si allontanò, ordinando al Dakhaan di guardia al carro, di scegliere quattro persone per la raccolta della legna per il grande fuoco, che altri della sua razza stavano allestendo al centro del campo. Con uno grugnito infastidito, il goblin si diresse verso il carro.
Con rumore metallico, la porta del carro si aprì, ed entrò nella squallida e puzzolente prigione. Gli schiavi erano quasi tutti in pessime condizioni. C’erano uomini e donne ammassati da settimane, in condizioni disumane, nutriti ad avanzi ed acqua piovana. Molti erano morti durante la deportazione. La maggior di questi disgraziati erano vittime di imboscate, saccheggi o deportati da tutto il Khorvaire e forse anche oltre.
Il goblin si mise ad esaminare uno ad uno, con i piccoli occhi maligni i prigionieri. Percorse tutta la lunghezza del carro insultando nella sua lingua e calciando con cattiveria i malcapitati che gli capitavano a tiro. Raggiunse la fine del carro e si soffermò a fissare il gruppo che lì era stato disposto. Erano stati catturati due notti prima e risultavano quelli più sani. Si avvicinò con la sua brutta faccia per esaminarli più da vicino. Zerbe, Sigon, Wurtar e Conan. Lo sguardo tornò poi sul mago.
«Melma… Sgragh uccide te! Oggi… domani… no importa. Sgragh uccide mago!» sibilò in lingua comune storpiata, ma minacciosamente sincera.
Ignorando lo sguardo furente del giovane Wurtar, sganciò le catene che tenevano imprigionati i polsi e le caviglie di Zerbe e Sigon dal pavimento. Liberò poi anche Wurtar, che non smise mai di fissarlo con odio. Si diresse poi verso Conan, che già si dimenava per la frenesia della provvisoria libertà che avrebbe presto acquisito.
«Tu corre via, attacca me o non fa ordini, io uccide te!» minacciò. Il corpo del barbaro rimase teso qualche istante e poi si rilassò in segno di accettazione della condizione imposta. Cautamente Sgragh lo liberò, per poi allontanarsi con uno scatto, memore della fine fatta dai suoi compagni qualche giorno prima.
«Muovere!» grugnì, dopo che Conan fu in piedi «Seguire Sgragh!».
Con la coda dell’occhio, Zerbe notò che da ogni carro scendevano un goblin e quattro prigionieri, che come loro avevano incatenati l’un l’altro polsi e caviglie, affinché il movimento fosse loro consentito, ma non la fuga.
Dopo un breve consulto con gli altri suoi simili, Sgragh si diresse verso di loro ordinando di muoversi verso la foresta a sud.
«No parla, raccoglie legno, torna fuoco» spiegò al gruppo in quel suo accento, così cacofonico.
Il crepuscolo inondava di cremisi il contorno della foresta innanzi a loro, lo spettacolo era davvero magnifico ai loro occhi prigionieri. Avevano quasi raggiunto il limitare del boschetto, dove avrebbero dovuto cominciare a cercare, seguiti dal goblin e la sua spada, quando Wurtar si voltò verso Sigon e disse di stare all’erta. Lo stesso fece con Conan e Zerbe.
Wurtar si fermò, si voltò e guardò in faccia il goblin.
«Melma! Cosa fa? Chi detto ferma?» urlò.
«Essere immondo figlio di una scrofa e di molti maiali.» cominciò ad insultare « Sono certo che tua madre ti ha partorito inavvertitamente in cima ad una cloaca mentre stava defecando.»
Sgragh capiva solamente una o due delle parole che Wurtar pronunciava, ma erano state sufficienti per fargli capire che il mago lo stava offendendo.
«Sgragh uccide Melma!» e l’orchetto colpì violentemente col il piatto della spada, la spalla di Wurtar, che cadde immediatamente a terra. Sgragh gli fu subito sopra, dimenticandosi completamente del resto del gruppo.
Questo fu il suo errore.
Con un muggito, Conan avvinghiò il collo di Sgragh con le catene dei polsi e serrò. L’incauto Sgragh morì in pochi istanti, ma il barbaro non smise di stritolare il collo della creatura, fino a quando Zerbe non gli fece notare che la testa si era quasi staccata. Wurtar era stato ferito dal colpo della guardia, ma fortunatamente in modo superficiale.
Presero le chiavi attaccate alla cinghia del morto e si liberarono dalle pesanti catene.
Wurtar si soffermò qualche istante a fissare l’essere inerme e quasi decapitato, mormorando qualcosa che gli altri non riuscirono a capire. Forse qualche maledizione nella lingua della sua gente, rivolta all’anima di Sgragh, rappresentante di quella razza tanto odiata.
«Facciamo sparire il cadavere nella foresta.» sentenziò infine. «Tenerlo qui, potrebbe essere rischioso».
Mentre Conan trascinava la prova del loro omicidio, all’interno della foresta, canticchiando una strana canzoncina circa “otto piccoli goblin”, gli altri discutevano sul da farsi.
Era evidente che non potevano tornare verso Rothsest, il villaggio da cui erano partiti. Specie in quelle condizioni: a piedi, senza armi e con decine di goblin alle calcagna. Wurtar elaborò una manovra evasiva: sciogliere le briglie ai cavalli, liberare gli schiavi, approfittare della confusione per recuperare la cassa che conteneva i loro oggetti ed infine fuggire. Nessuna obiezione, quindi si diressero furtivamente verso il campo, notando che tutti erano intenti a issare tende e a preparare il perimetro per il fuoco.
Nessuno era nei paraggi.
Sigon si piazzò dietro il carro con in mano come armi le catene che lo avevano tenuto prigioniero fino a qualche minuto prima. Zerbe e Conan si acquattarono lungo i lati e Wurtar dolorante strisciò sul fondo per arrivare ai cavalli. Giunto dietro alle tre bestie, il mago cominciò subito a slegare le briglie e le rozze imbracature, cercando di fare meno rumore possibile. Conan però, mentre si avvicinava alla cassa, fu notato da uno schiavo all’interno, che non seppe trattenere un grido di meraviglia. Un gruppo di tre guardie, distanti un centinaio di metri, udirono il suono e si mossero verso di loro, anche se fortunatamente non li avevano ancora notati. Il crepuscolo influenzava la loro vista: la luce era debole, ma non così debole da permettere al loro occhio di rivelare il calore dei corpi.
Velocemente Conan e Zerbe si avventarono sulla cassa e la sollevarono. Era pesantissima, in quanto conteneva gli averi di tutti gli schiavi del carro. Scendendo Conan scivolò e rovinò a terra rompendo la cassa e sparpagliando il contenuto. I goblin accelerano il passo, ma incredibilmente non avevano ancora individuato il gruppo. Sigon nel frattempo aveva lanciato le chiavi di Sgragh all’interno del carro, mostrando, agli stupiti schiavi, i polsi liberi. Wurtar aveva liberato anche i cavalli, ma non riuscì a salire in quanto intravide una guardia a pochi metri innanzi al carro. Fece l’unica cosa che gli venne in mente.
Schiaffeggiò le cosce delle bestie, che si diedero alla fuga, nitrendo: una puntò dritto il campo a nord travolgendo la guardia e tutte le tende che incontrava. Le altre puntarono a est e ovest.
«Per Olladra! Non abbiamo più tempo! Ci sono addosso!» urlò Zerbe a Conan «Tira su questo sacco! C’è dentro la nostra roba! »
«Ma non ci sono le armature…» obiettò il barbaro.
«Un bue aundariano circondato dai lupi, avrebbe più raziocinio! A cosa ti serve l’armatura, stupido barbaro?» disse il prete porgendo il sacco al compagno «Secondo te hai tempo per indossarla? O forse vuoi farti aiutare da loro?» indicando i tre goblin che ormai li avevano individuati e stavano dando l'allarme.
«Ho liberato i cavalli! Dovremmo aver guadagnato qualche istante in più» disse Wurtar che li aveva raggiunti.
«Guardate là!» esclamò Zerbe, indicando due dei cavalli, prima sciolti, che tornavano trottando verso il carro.
Conan, senza esitare, prese il sacco su una spalla, si caricò un poco accondiscendente Wurtar sull’altra. Con poche falcate raggiunse uno dei cavalli e caricò l'amico e il sacco sulla schiena senza sella dell’animale. Zerbe montò, sull’altro e si diresse verso il retro del carro per andare a recuperare Sigon. Una volta raggiunto, il mezzelfo dovette abbandonare il tentativo di scassinatura della porta del carro, che avrebbe consentito agli schiavi di fuggire.
Si precipitarono lungo il sentiero che si addentrava nella foresta, lanciando le bestie da traino ad un galoppo al quale non erano abituate.
Sapevano in cuor loro che probabilmente li avrebbero raggiunti, ma ciò non aveva importanza adesso.

La foresta che li circondava e il cielo che li sovrastava erano testimoni silenziosi di quell’evento.

Anche se breve e sfuggente come un sogno al mattino, era vero: erano di nuovo liberi.

Sar, Settimo giorno di Aryth
Cronache di Eberron – 998 AR

Sono tornato!

Ebbene gente,

dopo mesi e mesi di silenzio... direi di tristissimo silenzio, sono tornato!!!

Vi chiedo scusa, ma il lavoro è stato impegnativo, e non sono riuscito a dedicare il giusto tempo a questo angolo di libertà che è il mio blog.

Beh, innanzitutto ci sono delle novità.

La campagna con il Nic, penso non andrà più avanti, per incompatibilità di impegni di tutti. Mah... staremo a vedere.

Invece la grande novità è che torno a fare il MASTER!!!!
Incredibile!!! Dopo anni...
Mi vengono in mente i bei tempi del Role... mio Dio... avevo 14 anni...
Mi sono appassionato all'ambientazione di Eberron, e pertanto torno dietro lo schermo a raccontare gli eventi degli eroi che intenderanno addentrarsi in luoghi avventurosi e compiere gesta straordinarie.

Ed ora spazio ai protagonisti:

Gio [aka Kherydan] ha già completato la mia mini-avventura introduttiva ad Eberron "La fossa e la cerca", nei panni di un Forgiato guerriero. Unica nota dolente, è che non trovo più il manuale del DM e con esso la scheda PG di Gio... Credo che dovrà optare per la ricreazione del personaggio o riprogettarne un'altro (lo vedrei troppo bene in un Kalashtar/Guerriero Psischico).

Manuel [aka SQRC] invece sta per far saltar fuori un PG davvero FICO (sempre che non cambi idea...). Ad oggi: Forgiato/Artefice. Mancano da scegliere le abilità, i talenti e comprare l'equipaggiamento per cominciare. Mi è sembrato il più convinto per ora, e visto il PG che sta vennedo fuori, direi che se ne vedranno delle belle.

Simone [aka Nano] è il giocatore a mio avviso più versatile. Non ha preparato ancora nulla, ma secondo me, sarà quello che farà in modo che la campagna diventi qualcosa di indimenticabile. Ricordo ancora il Ranger dell'ultima campagna che abbiamo fatto. Nel prossimo post, inserirò un riassunto delle Cronache di Nophar tanto per dare un'idea dello spessore di gioco di Simone.

Fabio [aka Ciccio] praticamente una mina vagante. Da quanto ricordo, i suoi PG ambivano al potere assoluto. In qualunque forma: magia, domini terreni e/o politica. E soprattutto lo ottenevano senza farsi il minimo scrupolo: allinemanti CM, CN o LM. Sono davvero curioso di vedere cosa si inventerà stavolta.

E questo è tutto per ora.